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FIGLI ADOLESCENTI “SOSPESI” IN UN INTERMINABILE PRESENTE

Studio Sigré

FIGLI ADOLESCENTI “SOSPESI” IN UN INTERMINABILE PRESENTE

   Spazio Contro-Violenza 2-  A cura di Ilaria Pollono  –

   A chi non è mai successo di reagire ad un gesto violento di un figlio, ad una parola di troppo, ad un comportamento ritenuto eccessivo con altrettanta violenza? Forse a pochi. Forse perché è  davvero difficile trovarsi di fronte alla rabbia, all’ansia o alla tristezza dei figli e ai comportamenti che mettono in atto quando si sentono frustrati, inadeguati, impotenti. E’ difficile perché di fronte a queste emozioni un genitore può spaventarsi (cosa sei? cosa stai diventando? cosa diventerai?), può sentirsi a sua volta impotente (non so come aiutarti!), non riconosciuto (questo è  il risultato di tutto il mio amore e di tutto il mio impegno?).

In questa seconda ondata della pandemia, continuano ad aumentare  le situazioni di disagio sia negli adolescenti, sia nei genitori che, stanchi, sembrano essersi posizionati in una dimensione di “attesa”.

L’attesa che tutto questo finisca.

Abbiamo dovuto nuovamente restare il più possibile in casa perché considerata un posto sicuro, un rifugio che ci tiene “fuori dal pericolo” del contagio. Ma la casa è diventata davvero un posto sicuro per gli adolescenti?

Adolescenti che oggi si trovano ad implodere all’interno delle mura domestiche. Ragazze e ragazzi esposti al rischio di agire o di subire violenza nella relazione con i genitori e/o con fratelli e sorelle, in risposta alla loro “sospensione” fisica ed emotiva, bloccati in un presente che sembra non finire mai.

E per violenza qui ci riferiamo alla forza impetuosa e incontrollata, fisica o verbale, che si manifesta nelle relazioni quotidiane raccontate dagli adolescenti stessi o dai loro genitori che, in questa costante incertezza, spesso non si riconoscono più. Adolescenti e genitori un tempo impegnati a fare i conti con il cambiamento fisiologico che la crescita comportava, oggi impegnati a farlo, il più delle volte in una dimensione di estrema solitudine.

Le misure restrittive hanno, di fatto, improvvisamente modificato la quotidianità di tutti, ma in modo particolare hanno interrotto la quotidianità delle ragazze e dei ragazzi in trasformazione che, nella costruzione della loro identità, hanno fisiologicamente bisogno  – anche in lockdown – di sperimentarsi in nuove relazioni, di acquisire maggiore indipendenza dalle figure genitoriali, di mettersi in gioco nel gruppo dei pari, di costruire legami affettivi significativi.

Tutti questi bisogni, oggi, restano in casa.

Certo alcune indagini condotte sugli adolescenti in pandemia rilevano che “i ragazzi hanno dimostrato capacità di adattamento e di resilienza. Sono stati capaci di adeguarsi alla situazione con coscienza e serietà reinventandosi una quotidianità[1]”. Ma sono davvero in grado di fare fronte continuamente  ai repentini cambiamenti di questi mesi, sempre e solo all’interno di casa, uscendone indenni? Tutti? Sempre?

Tra le conseguenze più frequenti rilevate da altri studi condotti durante la seconda ondata[2], si citano ripetute crisi di pianto, intense crisi di rabbia, forti reazioni emotive verso le persone con le quali gli adolescenti convivono, che spesso – per la prima volta nella loro storia familiare – si traducono in violenza.

“Risponde male, è oppositivo, ha comportamenti bizzarri, è apatico, sempre attaccato allo smartphon, non vuole venire a mangiare a tavola, va a letto molto tardi, è irascibile, irritabile, cerca il contatto, ma poi esplode”.

 L’adolescente, nell’arco di poche ore, riesce ad essere tutto questo. Sempre soltanto dentro casa.

Comportamenti ascrivibili ad una dimensione tipicamente adolescenziale certo, ma amplificati dalla cassa acustica delle mura domestiche.

Eppure le emozioni dei ragazzi trovano abitualmente spazio di espressione e di elaborazione nell’incontro con gli amici, nello svolgimento di attività sportive, nella relazione con altri adulti di riferimento, nel contesto scolastico, attraverso i legami che costruiscono all’interno dei gruppi.

E ora?

Ecco che la cronaca di questi giorni ci racconta dell’incontro tra bande organizzato proprio con la finalità di ”darsele di santa ragione”; di un parroco che assiste alla scena di un ragazzino che prende a calci ripetutamente un pallone lanciandolo contro il portone della parrocchia, in completa solitudine, con una violenza inesauribile. E che dire di una madre spaventata di fronte alle urla della figlia che distrugge uno smartphone dicendo che non vuole più vivere?

Cosa esprimono questi ragazzi, in modo così violento, da non riuscire più a trattenere dentro il proprio corpo?

Il cervello degli adolescenti, ancora in progressiva evoluzione,  può essere rappresentato come un sistema in trasformazione ad alta intensità emotiva, (percepiscono più emozioni e in modo più vigoroso), ma ancora troppo difficile da organizzare (non sono ancora in grado di canalizzare le  emozioni e di gestire gli impulsi).

Non dimentichiamo, inoltre, che anche il loro corpo è in continua evoluzione.

L’adolescente ha la necessità fisiologica di “portare il suo corpo fuori dalle relazioni familiari”, di muoversi, di confrontarsi, di sperimentarsi, spinto dalla curiosità e dall’eccitazione, talvolta invaso dalla vergogna, dall’inadeguatezza, dal bisogno di identificazione all’interno dei gruppi di appartenenza.

All’interno di casa, il corpo dell’adolescente è costantemente sotto gli occhi dell’adolescente stesso. Così come sotto i suoi occhi scorrono quotidianamente i corpi che “incontra” nel mondo virtuale: mega, macro, micro e nano influencer, blogger, personaggi delle challenge più note.   

Ed ecco che il virtuale ruba prepotentemente la scena alle relazioni reali, più di quanto non stesse già accadendo prima della pandemia . Il virtuale che, da un lato, aiuta a lenire il buco causato dall’isolamento sociale, dall’altro, condanna ad una comunicazione compulsiva e perturbante, che muove continuamente forti emozioni, crea ingorgo, confonde.

Di fatto, sta accadendo che, oggi, tutte le loro emozioni vengono provate, manifestate e gestite in casa. Tutti i loro bisogni cercano soddisfacimento attraverso il mondo virtuale (non reale, ideale) e nel contesto familiare, inevitabilmente “troppo stretto”.

E gli adulti? come possono muoversi dentro casa?

Gli adulti, (impegnati a gestire le loro di emozioni!), si trovano smarriti di fronte a tanta vulnerabilità. Questo spesso  si traduce in un sovraccarico emotivo che appesantisce la famiglia e che talvolta sfocia in una rabbia incontenibile. Per tutti. E si riduce lo spazio della creatività, del piacere, del divertimento.

“In questi giorni è esplosiva”, raccontano due genitori preoccupati per la figlia sedicenne. “E noi spesso esplodiamo di fronte al suo comportamento!”.

Ma se i genitori oggi sono affaticati, impegnati da mesi nella gestione dei cambiamenti lavorativi, delle abitudini familiari, preoccupati a fronte di così tanta incertezza, com’è possibile trovare le risorse per essere davvero di aiuto ai figli?

Provare a leggere il comportamento violento dei figli come richiesta di aiuto, anziché come attacco o minaccia all'”io genitoriale”, può spesso rappresentare un primo passo significativo. Per dare nutrimento al legame, invece di sottrarne la linfa.

Tuttavia un genitore questo non è sempre in grado di farlo. Nessun genitore è sempre in grado supportare i figli. Soprattutto nei momenti in cui, a sua volta, è preoccupato, confuso, privo di energie.

Il genitore è in grado di sostenere i figli negli istanti in cui è emotivamente predisposto.

Ecco che allora – e solo allora – può intervenire in modo generativo nella relazione, non solo con il timore che qualcosa non stia funzionando (e con il desiderio di cambiarlo in fretta), ma con il desiderio di stare accanto al figlio – con fiducia –  per orientarlo in un momento di grande fragilità. Sufficientemente lontano per lasciare spazio ai suoi bisogni di autonomia e cautamente vicino per condividere anche brevi momenti di contatto, in cui l’adolescente si possa sentire compreso nella sua vulnerabilità. 

Aiutarlo a regolare le sue emozioni, anziché processarle.

Talvolta è possibile.

Grata alle ragazze, ai ragazzi e ai genitori che, con la condivisione dei loro racconti, hanno contribuito all’elaborazione di questo articolo.

[1] Ricerca Associazione sociologi italiani 2020

[2] Dati 2020 Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza

 

 

 

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SPAZIO CONTRO-VIOLENZA 1

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SPAZIO CONTRO-VIOLENZA 1

   –  A cura di Raffaella Borio  –

La violenza sulle donne è la violenza agita da chi non riesce a mettere in parola niente della distruttività che lo abita, né prima né dopo che sia esplosa; la donna in questi casi è l’anello che cede nel discorso, familiare, di coppia, di vita, del maltrattante che,  nella maggior parte dei casi, non sa dire nulla di quel che lo concerne. La violenza è odio, un odio che vuole la mortificazione e l’avvilimento dell’altro; non si può dire che la violenza sia “amore malato”, dell’ordine di Eros; piuttosto è dell’ordine di  Thanatos, di una forza mortifera che annulla colei che si dice di amare.

La violenza ben si maschera e fa capolino nei legami di coppia in diversi modi: aggressioni fisiche, vessazioni e ricatti psicologici, violenze verbali, controllo e persecuzioni.  Tal volta l’odio è cosi intenso da sfociare nella sua forma più estrema, il femminicidio.

La prima cosa che una donna deve fare quando subisce una violenza è parlarne,  denunciare. Fare un atto di denuncia, dirsi e dire che qualcosa non va e che bisogna affrontarlo. Non si deve assolutamente credere che “poi passerà” e lasciarsi intimorire dalle conseguenze che, di fatto, aumenteranno. È opportuno restare agganciate a familiari e amici, non abbandonare la rete di legami significativi che spesso, chi subisce, è costretto ad abbandonare precocemente: il maltrattante tende ad isolarsi e a isolare, costruendo una sorta  di follia a due, mascherata di amore assoluto e unico che altri non hanno diritto di condividere. E poi, altrettanto importante, sarà trovare un appiglio presso le istituzioni, i professionisti, le associazioni e gli enti locali dedicati, come i centri antiviolenza del territorio, non che le forze dell’ordine, a seconda del caso. Non rimanere sole, quindi, non farsi chiudere anche solo nel dubbio di avere accanto un uomo violento: parlarne aiuta a dipanare le emozioni, a sciogliere i nodi di dolore, a capire. Chi agisce violenza spesso fa leva sulle insicurezze e sui sentimenti di colpa dell’altro, facendogli credere di aver avuto  comportamenti inadeguati. Le crisi di violenza, in realtà, si innescano “senza motivo” (non perché non esista una causa: la causa c’è ed è sempre da rintracciare  a livello della struttura del soggetto),  nel senso che gli atteggiamenti degli altri non sono che pretesti per innescare un litigio: provocazioni e agiti aggressivi possono sorgere anche alimentati da una posizione di assoluta sottomissione e accondiscendenza.  Ho potuto constatare negli anni che ciò che fa si che si instauri un legame distruttivo tra un uomo e una donna è il “non volerne sapere nulla” di quell’alterità che ognuno di noi porta con sé e che, se rifiutata, non può che produrre segregazione. Siamo tutti estranei a noi stessi e se non ci facciamo carico di questo aspetto della condizione umana non possiamo renderci responsabili di ciò che siamo, di ciò che facciamo, dei nostri atti e gli altri diventano, a prescindere, nemici da colpire in quanto colpevoli del nostro esilio. Un uomo distante dalla propria alterità, che non ne può tener conto, per qualche motivo legato alla sua storia, potrebbe essere, a determinate condizioni, un uomo violento, verso se stesso e di conseguenza verso altri.

Tratto da: intervista su il Giornale del 25/11/2020_Raffaella Borio

 

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