Studio Sigré
SPAZIO CONTRO-VIRUS 9 Affacciarsi al figlio ADOLESCENTE a cura di Raffaella Borio
Uscire da una situazione, uscire da una crisi sanitaria, sociale, economica, da una crisi familiare, ma anche solo uscire, suona come un privilegio in questo tempo. Freud, in Psicologia del ginnasiale, descrive come il bambino diventa adolescente quando esce dalla stanza dei giochi per affacciarsi al mondo: lì riesce a cogliere l’amore per il proprio genitore, ma anche, contemporaneamente, il fastidio nel considerarlo colui che disturba la propria vita pulsionale.
Parliamo di pulsione in psicoanalisi ogni volta che c’è qualcosa che avanza una esigenza, che spinge, senza preoccuparsi se l’Altro dice di si o di no. Nell’amore, ad esempio, si dipende dal segno d’amore dimostrato dall’Altro che si ama. La pulsione, in questo, è il contrario dell’amore. Si tratta di una esigenza senza concessioni, senza limitazioni.
Il modello genitoriale in adolescenza fa difetto rispetto al limite, non borda come durante l’infanzia; non borda più neppure quel senso innato di precarietà che il bambino porta con sè; anche per questo il giovane figlio inizia a prendere le distanze dalla madre e dal padre alla ricerca di qualcosa che possa fare da ulteriore sponda, da nuovo limite e in qualche modo anche da scudo e protezione. Nello stesso periodo in cui il bambino esce dalla stanza dei giochi può succedere che cambi qualcosa anche nel genitore che, ad un tratto, può avvertire la sensazione di non riconoscere più come prima il proprio figlio. In un bailamme di contrasti affettivi di questa portata le fratture dei legami familiari sono all’ordine del giorno. Per il giovane risulta complicato prendere posizione e assumersi la responsabilità di dirsi -e dire- ciò che sta diventando, di dialogare a partire da un proprio sguardo sul mondo, di rendersi riconoscibile al genitore. Per l’adulto, invece, può essere difficile accogliere che la domanda del proprio figlio adolescente non sia più rivolta a lui, ma si esaurisca, piuttosto, all’esterno della famiglia, veicolata dalla facilità di comunicazione data dai social. Per l’adolescente vivere bene in famiglia è fattibile a condizione però di rappresentarsi in società in una forma definibile, che si possa dire, vedere, percepire, incontrare secondo parametri riconosciuti, che non sono più quelli visti dai genitori. I genitori fanno molta fatica in genere a lasciar andare i “connotati di bimbo” del figlio. E mentre si impegnano in questa difficile operazione di separazione, l’adolescente si esercita a dire io sono, io faccio, io dico, io penso … ossia inizia a rappresentare ciò che è; inizia a posizionarsi e narrarsi rispetto ad altri: io sono questo e non quello, sono così e non tutto il resto, amo questa cosa, questa persona, questo stile e non altri. Insomma questo sì, quello no. Potremmo dire che è alle prese con la propria costruzione. E gli altri? Gli altri, soprattutto gli amici e i pari, hanno una precisa funzione nel processo ricostruttivo. In questo preciso momento, vissuto molto in casa, gli adolescenti, in particolar modo, possono trovarsi in difficoltà. Chi incontrano? Come gestiscono la vita pulsionale che solitamente riversano nelle attività e nelle relazioni sociali? L’indicazione data a tutti noi dalle autorità è quella di affacciarsi alla finestra piuttosto che quella di uscire per strada e di questo monito, che è una esigenza pubblica ma, al contempo, si propone come paralizzante, è necessario che i genitori, gli adulti in genere, se ne facciano qualcosa, non lo subiscano e non facciano sentire ai più giovani di subirlo! Come? Bisognerà affacciarsi alla relazione con i propri figli, ossia muoversi nel legame con delicata attenzione rispetto a cosa si dice, a cosa si racconta: le parole hanno potere e producono effetti, oggi più che mai ne sentiamo la consistenza, soprattutto perchè si è costretti alla prossimità, alla vicinanza dei corpi con le tensioni e le oscillazioni d’umore, le insofferenze, le apatie e l’aggressività di cui tutti noi siamo portatori nella difficoltà. Come prendersi cura di noi, dei legami familiari e in particolare del legame con i propri figli? Quando i figli si rifiutano di parlare o lo fanno solo se costretti? Quando evitano il confronto o cercano lo scontro? Non è un compito semplice, ma è quanto di più amorevole un genitore possa fare: accogliere. Far posto alla difficoltà. Proviamo ad includere i figli in un andirivieni di attenzioni e parole, che tolgano dalla forzatura dell’incontro domestico, che tolgano dalla fissità: il ripetersi dei discorsi è già di per sè isolamento. La chiusura nelle mura di casa, la condivisione del tempo, l’esposizione ai gesti e ai volti familiari, come alle abitudini e ai soliti comportamenti, la mancanza di spazi privati possono compromettere i legami più sereni. I corpi son fermi, la vita sociale azzerata, gli incontri ridotti al minimo storico: il riconoscimento e il consenso dell’Altro di cui si alimenta un giovane adolescente è difficile da raccogliere, adesso. Il genitore può usare le parole per calmare, per disangosciare, ha il compito di dialogare con il figlio per contrastare con il proprio “desiderio di farcela” (che poi è lo stesso desiderio di vivere che l’ha fatto diventare genitore) quella pulsione che spinge il giovane verso fisiologici stati di inquietudine. Una vitale circolarità di parole, diverse, sempre attente, prive di giudizio, e più tese ad includere i discorsi del figlio, può far sì che si possa continuare ad abitare la propria casa come un luogo di protezione e riparo. Ecco lo scudo di cui scrivevo all’inizio. Il genitore può, in questa situazione, tornare ad essere per il figlio un limite ma anche un riparo: facendosi presente nei silenzi del figlio, silente nei suoi eccessi e riducendo così il rischio di scontri causati sempre da un troppopieno di detti e di corpi. Creare una alternanza di presenza e assenza che punti a simbolizzare il legame e a vivere il rapporto non come intrusivo e invadente, ma come appiglio, a cui agganciarsi al bisogno per domandare aiuto. Stiamo tutti facendo esperienza diretta, che le formazioni umane, i gruppi e la società, sono dell’ordine del necessario per l’uomo: essere esclusi dal consorzio umano, fatto di quell’umanità a volte anche fastidiosa, può trasformarsi d’un tratto in crisi, personale e soggettiva. Un Altrove è necessario per ognuno di noi, ma per un adolescente è indispensabile: per far esistere l’io, per essere, per differenziarsi, per costruirsi.
Immagine di: Rebecca Dautremer
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