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Buon rientro Insegnanti!

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Buon rientro Insegnanti!

A cura di: Massimo Giugler                                                                                     

Oggi i docenti di ruolo riprendono la loro attività. Ci chiediamo con quale stato d’animo, con quale serenità.

La scuola è diventata,  nella gestione del fenomeno pandemico, uno dei poli di maggiore concentrazione di attenzioni. In questi lunghi mesi abbiamo percepito una sorta di accanimento verso alunni, docenti e personale non docente.

Dapprima la chiusura agonizzante, poi la riapertura con mille dubbi, che sono rimasti tali, anche se demoliti da dati statistici, in cui si è evidenziato che la scuola è stata un luogo sicuro, grazie a tutti gli accorgimenti messi in atto dal personale docente e non e dalla diligenza degli allievi.

Ora si è alzata l’asticella, come se quelle azioni messe in atto non fossero state efficaci, con la richiesta del cosiddetto Green Pass per i lavoratori e la forte raccomandazione della vaccinazione per gli allievi (e anche in questo caso senza tener conto approfonditamente degli studi scientifici in merito al rapporto rischi/benefici per i minorenni).

Da quando siamo entrati nella bolla della pandemia, l’argomento scuola ha tenuto banco ed è stato un continuo susseguirsi di comunicati, dichiarazioni, a tutti i livelli, smentite il giorno successivo.

Ci chiediamo con quale stato d’animo un docente possa iniziare l’anno scolastico quest’anno.

 Oltre alla delicatezza del ruolo, discorso che vale per ogni annualità, quest’anno si aggiunge una cappa decisamente pesante e fonte di tensioni  verso i docenti. Non è solo più, come l’anno precedente, l’attenzione che dovranno porre per il mantenimento delle norme di sicurezza e le nuove procedure.

 Vi saranno, di sicuro, tensioni meno evidenti, più impalpabili, che ruoteranno nella scuola, fra le classi, che rischieranno di sottrarre energia ai docenti, ai quali temiamo che spetti un anno gravoso, non scevro di polemiche anche fra il personale stesso.

A loro vuole andare il nostro pensiero in questo primo settembre 2021 e l’auspicio che il focus, nonostante le tensioni di cui siamo consapevoli, possa essere mantenuto sugli allievi e il loro benessere.

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FIGLI ADOLESCENTI “SOSPESI” IN UN INTERMINABILE PRESENTE

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FIGLI ADOLESCENTI “SOSPESI” IN UN INTERMINABILE PRESENTE

   Spazio Contro-Violenza 2-  A cura di Ilaria Pollono  –

   A chi non è mai successo di reagire ad un gesto violento di un figlio, ad una parola di troppo, ad un comportamento ritenuto eccessivo con altrettanta violenza? Forse a pochi. Forse perché è  davvero difficile trovarsi di fronte alla rabbia, all’ansia o alla tristezza dei figli e ai comportamenti che mettono in atto quando si sentono frustrati, inadeguati, impotenti. E’ difficile perché di fronte a queste emozioni un genitore può spaventarsi (cosa sei? cosa stai diventando? cosa diventerai?), può sentirsi a sua volta impotente (non so come aiutarti!), non riconosciuto (questo è  il risultato di tutto il mio amore e di tutto il mio impegno?).

In questa seconda ondata della pandemia, continuano ad aumentare  le situazioni di disagio sia negli adolescenti, sia nei genitori che, stanchi, sembrano essersi posizionati in una dimensione di “attesa”.

L’attesa che tutto questo finisca.

Abbiamo dovuto nuovamente restare il più possibile in casa perché considerata un posto sicuro, un rifugio che ci tiene “fuori dal pericolo” del contagio. Ma la casa è diventata davvero un posto sicuro per gli adolescenti?

Adolescenti che oggi si trovano ad implodere all’interno delle mura domestiche. Ragazze e ragazzi esposti al rischio di agire o di subire violenza nella relazione con i genitori e/o con fratelli e sorelle, in risposta alla loro “sospensione” fisica ed emotiva, bloccati in un presente che sembra non finire mai.

E per violenza qui ci riferiamo alla forza impetuosa e incontrollata, fisica o verbale, che si manifesta nelle relazioni quotidiane raccontate dagli adolescenti stessi o dai loro genitori che, in questa costante incertezza, spesso non si riconoscono più. Adolescenti e genitori un tempo impegnati a fare i conti con il cambiamento fisiologico che la crescita comportava, oggi impegnati a farlo, il più delle volte in una dimensione di estrema solitudine.

Le misure restrittive hanno, di fatto, improvvisamente modificato la quotidianità di tutti, ma in modo particolare hanno interrotto la quotidianità delle ragazze e dei ragazzi in trasformazione che, nella costruzione della loro identità, hanno fisiologicamente bisogno  – anche in lockdown – di sperimentarsi in nuove relazioni, di acquisire maggiore indipendenza dalle figure genitoriali, di mettersi in gioco nel gruppo dei pari, di costruire legami affettivi significativi.

Tutti questi bisogni, oggi, restano in casa.

Certo alcune indagini condotte sugli adolescenti in pandemia rilevano che “i ragazzi hanno dimostrato capacità di adattamento e di resilienza. Sono stati capaci di adeguarsi alla situazione con coscienza e serietà reinventandosi una quotidianità[1]”. Ma sono davvero in grado di fare fronte continuamente  ai repentini cambiamenti di questi mesi, sempre e solo all’interno di casa, uscendone indenni? Tutti? Sempre?

Tra le conseguenze più frequenti rilevate da altri studi condotti durante la seconda ondata[2], si citano ripetute crisi di pianto, intense crisi di rabbia, forti reazioni emotive verso le persone con le quali gli adolescenti convivono, che spesso – per la prima volta nella loro storia familiare – si traducono in violenza.

“Risponde male, è oppositivo, ha comportamenti bizzarri, è apatico, sempre attaccato allo smartphon, non vuole venire a mangiare a tavola, va a letto molto tardi, è irascibile, irritabile, cerca il contatto, ma poi esplode”.

 L’adolescente, nell’arco di poche ore, riesce ad essere tutto questo. Sempre soltanto dentro casa.

Comportamenti ascrivibili ad una dimensione tipicamente adolescenziale certo, ma amplificati dalla cassa acustica delle mura domestiche.

Eppure le emozioni dei ragazzi trovano abitualmente spazio di espressione e di elaborazione nell’incontro con gli amici, nello svolgimento di attività sportive, nella relazione con altri adulti di riferimento, nel contesto scolastico, attraverso i legami che costruiscono all’interno dei gruppi.

E ora?

Ecco che la cronaca di questi giorni ci racconta dell’incontro tra bande organizzato proprio con la finalità di ”darsele di santa ragione”; di un parroco che assiste alla scena di un ragazzino che prende a calci ripetutamente un pallone lanciandolo contro il portone della parrocchia, in completa solitudine, con una violenza inesauribile. E che dire di una madre spaventata di fronte alle urla della figlia che distrugge uno smartphone dicendo che non vuole più vivere?

Cosa esprimono questi ragazzi, in modo così violento, da non riuscire più a trattenere dentro il proprio corpo?

Il cervello degli adolescenti, ancora in progressiva evoluzione,  può essere rappresentato come un sistema in trasformazione ad alta intensità emotiva, (percepiscono più emozioni e in modo più vigoroso), ma ancora troppo difficile da organizzare (non sono ancora in grado di canalizzare le  emozioni e di gestire gli impulsi).

Non dimentichiamo, inoltre, che anche il loro corpo è in continua evoluzione.

L’adolescente ha la necessità fisiologica di “portare il suo corpo fuori dalle relazioni familiari”, di muoversi, di confrontarsi, di sperimentarsi, spinto dalla curiosità e dall’eccitazione, talvolta invaso dalla vergogna, dall’inadeguatezza, dal bisogno di identificazione all’interno dei gruppi di appartenenza.

All’interno di casa, il corpo dell’adolescente è costantemente sotto gli occhi dell’adolescente stesso. Così come sotto i suoi occhi scorrono quotidianamente i corpi che “incontra” nel mondo virtuale: mega, macro, micro e nano influencer, blogger, personaggi delle challenge più note.   

Ed ecco che il virtuale ruba prepotentemente la scena alle relazioni reali, più di quanto non stesse già accadendo prima della pandemia . Il virtuale che, da un lato, aiuta a lenire il buco causato dall’isolamento sociale, dall’altro, condanna ad una comunicazione compulsiva e perturbante, che muove continuamente forti emozioni, crea ingorgo, confonde.

Di fatto, sta accadendo che, oggi, tutte le loro emozioni vengono provate, manifestate e gestite in casa. Tutti i loro bisogni cercano soddisfacimento attraverso il mondo virtuale (non reale, ideale) e nel contesto familiare, inevitabilmente “troppo stretto”.

E gli adulti? come possono muoversi dentro casa?

Gli adulti, (impegnati a gestire le loro di emozioni!), si trovano smarriti di fronte a tanta vulnerabilità. Questo spesso  si traduce in un sovraccarico emotivo che appesantisce la famiglia e che talvolta sfocia in una rabbia incontenibile. Per tutti. E si riduce lo spazio della creatività, del piacere, del divertimento.

“In questi giorni è esplosiva”, raccontano due genitori preoccupati per la figlia sedicenne. “E noi spesso esplodiamo di fronte al suo comportamento!”.

Ma se i genitori oggi sono affaticati, impegnati da mesi nella gestione dei cambiamenti lavorativi, delle abitudini familiari, preoccupati a fronte di così tanta incertezza, com’è possibile trovare le risorse per essere davvero di aiuto ai figli?

Provare a leggere il comportamento violento dei figli come richiesta di aiuto, anziché come attacco o minaccia all'”io genitoriale”, può spesso rappresentare un primo passo significativo. Per dare nutrimento al legame, invece di sottrarne la linfa.

Tuttavia un genitore questo non è sempre in grado di farlo. Nessun genitore è sempre in grado supportare i figli. Soprattutto nei momenti in cui, a sua volta, è preoccupato, confuso, privo di energie.

Il genitore è in grado di sostenere i figli negli istanti in cui è emotivamente predisposto.

Ecco che allora – e solo allora – può intervenire in modo generativo nella relazione, non solo con il timore che qualcosa non stia funzionando (e con il desiderio di cambiarlo in fretta), ma con il desiderio di stare accanto al figlio – con fiducia –  per orientarlo in un momento di grande fragilità. Sufficientemente lontano per lasciare spazio ai suoi bisogni di autonomia e cautamente vicino per condividere anche brevi momenti di contatto, in cui l’adolescente si possa sentire compreso nella sua vulnerabilità. 

Aiutarlo a regolare le sue emozioni, anziché processarle.

Talvolta è possibile.

Grata alle ragazze, ai ragazzi e ai genitori che, con la condivisione dei loro racconti, hanno contribuito all’elaborazione di questo articolo.

[1] Ricerca Associazione sociologi italiani 2020

[2] Dati 2020 Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza

 

 

 

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SPAZIO CONTRO-VIOLENZA 1

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SPAZIO CONTRO-VIOLENZA 1

   –  A cura di Raffaella Borio  –

La violenza sulle donne è la violenza agita da chi non riesce a mettere in parola niente della distruttività che lo abita, né prima né dopo che sia esplosa; la donna in questi casi è l’anello che cede nel discorso, familiare, di coppia, di vita, del maltrattante che,  nella maggior parte dei casi, non sa dire nulla di quel che lo concerne. La violenza è odio, un odio che vuole la mortificazione e l’avvilimento dell’altro; non si può dire che la violenza sia “amore malato”, dell’ordine di Eros; piuttosto è dell’ordine di  Thanatos, di una forza mortifera che annulla colei che si dice di amare.

La violenza ben si maschera e fa capolino nei legami di coppia in diversi modi: aggressioni fisiche, vessazioni e ricatti psicologici, violenze verbali, controllo e persecuzioni.  Tal volta l’odio è cosi intenso da sfociare nella sua forma più estrema, il femminicidio.

La prima cosa che una donna deve fare quando subisce una violenza è parlarne,  denunciare. Fare un atto di denuncia, dirsi e dire che qualcosa non va e che bisogna affrontarlo. Non si deve assolutamente credere che “poi passerà” e lasciarsi intimorire dalle conseguenze che, di fatto, aumenteranno. È opportuno restare agganciate a familiari e amici, non abbandonare la rete di legami significativi che spesso, chi subisce, è costretto ad abbandonare precocemente: il maltrattante tende ad isolarsi e a isolare, costruendo una sorta  di follia a due, mascherata di amore assoluto e unico che altri non hanno diritto di condividere. E poi, altrettanto importante, sarà trovare un appiglio presso le istituzioni, i professionisti, le associazioni e gli enti locali dedicati, come i centri antiviolenza del territorio, non che le forze dell’ordine, a seconda del caso. Non rimanere sole, quindi, non farsi chiudere anche solo nel dubbio di avere accanto un uomo violento: parlarne aiuta a dipanare le emozioni, a sciogliere i nodi di dolore, a capire. Chi agisce violenza spesso fa leva sulle insicurezze e sui sentimenti di colpa dell’altro, facendogli credere di aver avuto  comportamenti inadeguati. Le crisi di violenza, in realtà, si innescano “senza motivo” (non perché non esista una causa: la causa c’è ed è sempre da rintracciare  a livello della struttura del soggetto),  nel senso che gli atteggiamenti degli altri non sono che pretesti per innescare un litigio: provocazioni e agiti aggressivi possono sorgere anche alimentati da una posizione di assoluta sottomissione e accondiscendenza.  Ho potuto constatare negli anni che ciò che fa si che si instauri un legame distruttivo tra un uomo e una donna è il “non volerne sapere nulla” di quell’alterità che ognuno di noi porta con sé e che, se rifiutata, non può che produrre segregazione. Siamo tutti estranei a noi stessi e se non ci facciamo carico di questo aspetto della condizione umana non possiamo renderci responsabili di ciò che siamo, di ciò che facciamo, dei nostri atti e gli altri diventano, a prescindere, nemici da colpire in quanto colpevoli del nostro esilio. Un uomo distante dalla propria alterità, che non ne può tener conto, per qualche motivo legato alla sua storia, potrebbe essere, a determinate condizioni, un uomo violento, verso se stesso e di conseguenza verso altri.

Tratto da: intervista su il Giornale del 25/11/2020_Raffaella Borio

 

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 14 ” Come Gabbianelle fermate in volo”

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 14 ” Come Gabbianelle fermate in volo”

    A cura di Giovanna Mazza

C’è un momento magico che si verifica sempre, nel corso del primo quadrimestre, quando si insegna in una classe Prima. Il momento in cui il bambino scopre, quasi stupito di se stesso, di aver imparato a leggere.
Ricordo un mio alunno di qualche anno fa: era forse ottobre o novembre, l’avevo chiamato vicino a me, alla cattedra, durante l’intervallo, e gli avevo chiesto di leggere alcune paroline, formate dalle sillabe che avevamo già imparato. Lui mi aveva guardata stupitissimo e mi aveva detto “Ma io non so leggere!” , io l’avevo invitato a tentare lo stesso e lui…ha letto: “Me-La…Mela; Lu-po…Lupo; Pe-ra…Pera”, e ogni parolina che leggeva era sempre più sorpreso e mi guardava con gli occhi sbarrati.
Ecco, per me questo bambino è l’emblema della classe Prima: lo stupore.
Lo stupore nello scoprire di aver imparato a fare, non una cosa qualsiasi, ma qualcosa che ti apre un mondo nuovo, qualcosa che diventa veramente una chiave per entrare nel Mondo, il mondo “dei grandi”, il mondo vero, il mondo di tutti, perché se sai leggere sei padrone, in qualche modo, di accessi che fino a quel momento ti erano negati. La Prima è tutta così: una serie di scoperte e di apprendimenti continui, nella lettura, nella scrittura, ma anche nelle abilità sociali; nella capacità di fare le cose da solo, a partire dal fare la fila a coppie, all’andare in gruppo in bagno, da soli, senza la guida della maestra, come invece accadeva alla scuola dell’infanzia, in cui ci si sedeva insieme sulle panchine ad aspettare che tutti avessero lavato le mani…
La Prima è una serie di acquisizioni continue di abilità e di autonomie.
Si impara ad aver cura delle proprie cose, a ritirare gli oggetti nell’astuccio e nello zaino, a stare con gli altri davvero, a fare ulteriormente a meno dell’intervento costante dell’adulto, un processo che era già iniziato alla materna, ma che sicuramente si amplifica e si accelera alle elementari. Si impara un po’ di più a cavarsela da soli, un percorso che, ovviamente, dura tutta la scuola primaria e forse tutta la vita, in cui la Prima, però, segna proprio il momento di passaggio. E non mi riferisco solo all’inizio della Prima, ma all’intero anno scolastico. Si impara a litigare e anche a fare pace, ad accettare un po’ di più l’assenza dell’intervento dell’adulto, a sentirsi grandi rispetto ai compagni che si sono lasciati alla materna, a sentirsi un po’ più grandi anche nei confronti dei genitori. E di conseguenza cambiano una serie di dinamiche e di relazioni anche fuori dalla scuola. E’ questo uno dei grandi danni, sicuramente non il solo, che si è verificato quest’anno: bloccare,di colpo e senza preavviso, l’entusiasmo, lo stupore , lo slancio della scoperta, dell’imparare, dell’uscire dal guscio, del diventare grandi.
I bambini di classe Prima sono come la Gabbianella.
La Gabbianella che scopre finalmente di essere in grado di volare, parte, decolla… ma viene fermata in volo, mentre sta appena assaporando l’ebbrezza di quel momento e le sue ali sono ancora un pochino stropicciate… Le viene imposto di scendere, di tornare, non solo a terra, ma nel nido. Ecco è questo il danno e il grande rammarico, l’aver interrotto il primo volo.
Giovanna Mazza – Scuola Primaria di Bollengo

Tratto da: varieventuali art. aprile 2020

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 13 “A scuola chiusa, come sarà la chiusura dell’anno scolastico? “

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 13 “A scuola chiusa, come sarà la chiusura dell’anno scolastico? “

    A cura di Massimo Giugler

C’è un tema che mi è parso poco trattato in questi mesi in cui sono stati posti i sigilli agli istituti scolastici: la chiusura dell’anno scolastico 2019/2020. Come sarà? Avverrà a distanza o sarà possibile immaginarsi forme non dico di contatto, ma almeno di presenza fisica?

Trovo che, tra le altre forme di disagio che si possono essere create nei bambini in questo periodo, ve ne sia una che è evidente, ma poco considerata: l’impossibilità di salutarsi tra compagni nel momento in cui la scuola è stata chiusa e l’impossibilità di salutare i loro insegnanti, così come avviene per le vacanze. I bambini sono rimasti a casa, almeno qui in Canavese, per il Carnevale, quindi per un momento ludico.
Poi una prima breve chiusura per virare a chiusure prolungate con il passaggio dei genitori a scuola a ritirare libri e quaderni, quando si è capito che la chiusura sarebbe stata di una certa durata.
E oltre a non essersi salutati prima della chiusura c’è il rischio che non possano farlo nemmeno a giugno.

Trovo necessario che i bambini riescano a vedersi, non per motivi didattici, ma psicologici e relazionali. E’ importante ritrovarsi per condividere ciò che è stato in questi mesi e per gettare un ponte per la ripresa. Trovo pericoloso lasciare aperto questo buco, che può diventare, nel corso dell’estate, una voragine. Non è sano lasciare le situazioni aperte, indefinite, incerte, come è avvenuto in questi mesi, quando si è stati attraversati da continue ipotesi di riapertura. Tutti noi abbiamo bisogno di certezze e ancora di più che vive la fase dello sviluppo. E’ stata già rimarcata da molti l’importanza di determinare i tempi, di tenere i ritmi in queste giornate tutte uguali. Così come lo è sapere quando finirà la scuola e quando e come riaprirà. Sia per noi adulti, sia per loro bambini.

Un altro punto da determinare, da chiudere è la relazione con gli insegnanti e fra di loro. Se vi sono state numerose esperienze in cui i bambini, grazie al dinamismo e all’intraprendenza dei propri insegnanti, hanno potuto vedersi attraverso un video, dialogare tra di loro e con i loro insegnati, ve ne sono altrettante in cui ciò non è avvenuto. Per entrambe le situazioni ravvedo comunque la necessità di uno/due incontri entro giugno per le ragioni che ho già esposto, a cui ne aggiungo una: realizzare un simile incontro equivale inoltre costruire un solido pilone per attraversare l’estate e per creare condizioni favorevoli per il rientro a scuola per l’anno 2020/21. Altrimenti la gittata potrebbe risultare troppo ampia e crollare.

La necessità di incontrarsi risulta ancora più cogente per quei bambini che si trovano nella fase di passaggio da un grado di istruzione all’altro. Se il bisogno di chiudere è evidente per tutte le classi, diventa cogente per quei gruppi che non si possono dire arrivederci. La chiusura del ciclo dell’infanzia, della primaria e della secondaria sono dei passaggi fondamentali nella crescita di un individuo. Credo che tutti ricordiamo l’emozione dei saluti, della consegna dei lavori svolti nel corso dell’anno dai bambini nell’infanzia, la foto di gruppo che si appende per anni in camera e che segna una pietra miliare per misurare il cambiamento negli anni (già mancherà il saggio finale!). O ancora il passaggio di consegna fra gli alunni della V elementare con i relativi investimenti sulla preparazione, la cura del passaggio e primi riti di saluto di gruppo (cena in pizzeria o in casa di genitori disponibili). Significativa è la chiusura della secondaria di primo grado, anche perché il gruppo poi si disperde. Mancheranno quest’anno le feste di chiusura, le scorribande di gruppo in città, la cena in pizzeria, le magliette personalizzate. I ragazzi della maturità avranno, così pare, la possibilità di un esame orale in situazione (pare negato per i colleghi della terza media), dove però mancherà la dimensione del gruppo. Sono anche ragazzi dotati di maggiori risorse, con pluriappartenenze e con possibilità di incontro anche in tempi successivi, in cui la situazione tornerà ordinaria.

Ultima annotazione: viviamo in una società dove i riti di passaggio sono pressoché scomparsi, in cui si rimane in una condizione di eterna gioventù. Conosciamo la valenza di questi riti: danno struttura , identità e legittimazione sociale: rappresentano gli scalini da percorrere nella crescita individuale e nel posizionamento sociale. Non creare almeno un’occasione di incontro significa privarli di un ulteriore sostegno evolutivo.

Mi auguro pertanto che si possano creare le condizioni per cui attraverso un’alleanza fra insegnanti, scuola, genitori, enti locali, si riesca a realizzare almeno un momento di incontro fra i compagni di classe e i loro inseganti, sfruttando gli spazi all’aperto di cui, almeno da noi, tutte le scuole dispongono. E se non fosse possibile per tutte le classi, mi auguro che possa esserlo per quelle che si apprestano a chiudere un ciclo. E ad aprirne un altro.

 

 

 

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 12 “Non si tratta di addestrare”

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 12 “Non si tratta di addestrare”

    A cura di Raffaella Borio

Da qualche ora si può scendere in strada. Bambini e genitori hanno atteso questo momento come la notte attende il dì. Senza precipitarsi, però, è importante: la fretta non è una valida consigliera, si sa. Per i bambini è fondamentale rimettere i loro passi in strada, ma non senza una guida alle loro spalle, senza un adulto che li segua avvertitamente. Ovunque si leggono buone norme da far adottare ai bambini e sani comportamenti  da insegnar loro prima del ritorno in società. Sarà davvero questo l’aspetto più importante su cui un genitore deve riporre tutta la sua attenzione ora? La vita sociale dei bambini moderni è già così articolata! Nell’ultimo periodo si è maggiormente complessificata: le molte cose da fare, in gruppo con i pari e anche in solitaria, sono divenute attività da svolgersi con la presenza di un adulto al fianco e un computer davanti. Se il loro mondo di relazioni (così come quello degli adulti) si mostrava  molto prestazionale, già prima di questa crisi sociale, ora lo è molto di più: la domanda ad essere bravi , disciplinati e preparati per non mettere in cattiva luce il mandato educativo del genitore o dell’educatore è costante. Credo che educatori e genitori debbano interrogarsi oggi come non mai su questo aspetto, proprio perché l’assetto relazionale genitori-figli ( soprattutto per  la fascia di ètà compresa tra i 5 e i 10 anni) si è modificato: i canali di comunicazione sono invasi da manuali didattici, video illustrativi e audio esplicativi su come lavarsi  le mani, come e quando  indossare la mascherina più  corollari vari che conosciamo bene…se è molto importante che si insegnino e si cerchi di far applicare alla vita queste condotte è altrettanto importante non esasperarle evitando che il bambino  ne venga travolto. Come  orientarsi?  Sarà sufficiente non perdere di vista che le regole ( anche quelle di comportamento) a cui tutti noi dobbiamo rifarci, non solo i bambini, funzionano se prese in un legame amorevole, ossia di fiducia:  non dovrà essere un addestramento al  nuovo vivere in società, bensì  un affiancamento, un esserci  per consentire al bambino di poter  fare  un’esperienza senza timore, una esperienza fattibile e interessante. Sulla base di quanto l’adulto saprà trasmettere di questo “regolamento”, il bambino potrà adottare la novità come fosse un appiglio su cui costruire anche un modo proprio  e originale di avere a che fare con la situazione attuale.  Nella nostra società la spinta all’apprendimento è forte  in ogni ambito della vita e anche i bambini risentono di questa esortazione ad imparare di continuo e a mostrare di sapere. Forse anche perché il sapere, inteso come conoscenza,  sembra esser diventato uno tra i beni di acquisto tra gli altri, che possono consentire a vivere meglio. Nel momento in cui, però,  il sapere si offre senza domandare nessun’altra forma di adesione a chi è rivolto, ossia quando punta all’assimilazione senza più partecipazione da parte di chi deve imparare,  non se ne reperisce più il senso e l’utilità. Assimilazione non è desiderio di sapere: per i bambini ora non si tratta solamente di assimilare nuovi modi di fare. In ogni campo si può apprendere la condotta più appropriata, pensiamo al fenomeno dei tutorial o della didattica a distanza. L’acquisizione di nozioni è quanto ci si prefigge di ottenere con questi strumenti che, se pur validissimi, mancano di quel quanto di umano che, a nostra insaputa, fa sì che ci si possa appassionare, per esempio, ad una materia o per contro odiarla, per amarne altre. La tendenza attuale è quella di moltiplicare linee guida e protocolli di ogni tipo, spesso non molto lontani da vere e proprie tecniche di addestramento, che creano i presupposti per un processo di apprendimento standard che non lascia granché spazio alla domanda e alla curiosità singolare di ognuno; che non segna l’esperienza di apprendimento del bambino: non in-segna nulla del proprio modo di voler sapere. Sarà capitato, infatti, a molti di noi di chiedere ad un bambino cosa gli sia piaciuto o interessato di un compito che ha svolto correttamente e di ricevere in risposta silenzio o un sonoro “non lo so”, proprio come se quanto appreso non lo riguardasse. Come suscitare quel desiderio di sapere? Che si tratti di leggere, scrivere, contare, disegnare, ma anche di vivere secondo regole o introdurne di nuove? Affiancare un figlio ora nell’apprendere nuovi modi di fare vuol dire prima di tutto non delegare completamente alcune spiegazioni, alcuni racconti, su quanto sta capitando nel mondo a video o a pacchetti di nozioni che, per quanto utili, divertenti e scientificamente competenti non possono, da soli, aiutare il bambino a capire e a cambiare. L’esperienza clinica con i bambini, e non solo,  mi ha convinta nel tempo che  si può imparare qualcosa solo a partire dal modo in cui si è legati all’altro.

 

 

 

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 11 “Il potere delle Parole”

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 11 “Il potere delle Parole”

    A cura di Massimo Giugler

 

Le parole rappresentano un potente mezzo per definire la realtà in cui viviamo. Modificare le parole ci permette di percepire la realtà in cui viviamo in modo diverso. In psicoterapia si pondera l’uso della parola. Ne sono molto attente alcune discipline quali la Neurolinguistica, la psicoanalisi, l’ipnoterapia, la sistemica, seppur con declinazioni cliniche diverse.

In una terapia di coppia assume un significato diverso chiamare i membri della coppia con il proprio nome o chiamarli marito e moglie, o mamma e papà, così come sottolineare o meno il legame con i figli chiamandoli per nome o con l’appellativo di “figli”. Non è una questione di giusto o sbagliato, ma di risonanze, di scenari che si aprono (o chiudono), in modo diverso, di modalità di percepirsi in relazione con i soggetti che si citano.

Possiamo tranquillamente affermare che, seppur in maniera diversa, l’uso della parola è un denominatore comune per tutte le correnti psicoterapiche.

Che parole entrano in casa in questi giorni? Noi, come genitori, che parole stiamo usando in questo periodo di “clausura”? Che parole sentono i nostri figli in casa?

In questi ultimi due mesi abbiamo assistito ad un esempio calato nella nostra quotidianità rispetto a quanto stiamo affermando. Ci riferiamo alla vicenda del Covid-19. I termini utilizzati dai mezzi di informazione hanno descritto l’epidemia come una guerra. Hanno così definito il contesto, perché le parole definiscono anche il contesto, come un contesto di guerra. In guerra si sa, cambiano i valori, le priorità. In guerra ci si pone l’obiettivo di sconfiggere il nemico e tutte le energie vanno in quella direzione. Quella diventa la priorità e tutto il resto passa in secondo piano. Ogni azione, anche la più impopolare, è giustificata dal fine dichiarato, in quanto ritenuto nobile.

Ma che sarebbe accaduto se si fossero usati altri termini? Se si fosse parlato di pandemia e tale fosse rimasta la definizione: non ci saremmo forse mossi in un contesto sanitario? Un contesto sempre hard, ma dove non sarebbero emersi termini come “fronte”, “eroi”, “prima linea”, “armi”, “task force”, ecc. Termini che a loro volta hanno contribuito a creare e rinforzare il contesto di guerra.

Se fossimo stati capaci di rimanere nel contesto sanitario, dando il giusto valore alle encomiabili azioni del personale sanitario, dei volontari delle associazioni che si sono prodigati in questa situazione critica, perdendo purtroppo in molti la vita, sarebbe cambiato qualcosa? Io credo di sì.

L’hanno già detto altri, ma se avessimo parlato di cura, di terapia, di rimedi farmacologici, di interventi di prevenzione, come sarebbero stati trattati gli ammalati e le loro famiglie? Avremmo sempre avuto l’attenzione sul bollettino di guerra delle ore 18 o avremmo spostato l’attenzione su altri indicatori?

Ci siamo infilati in una dinamica circolare in cui le parole hanno definito il contesto (di guerra) e le azioni intraprese lo hanno confermato. I presidi militari in strada, la massiccia presenza delle forze dell’ordine a reprimere azioni non in linea con le ordinanze varie,  sono la conferma del clima di guerra che si è creato. Una guerra che si sta spostando, piano piano, anche a livello di cittadini, che si assurgono, in molti casi, a sceriffi. Io controllo te, tu controlli me, secondo un principio che non è di tutela della salute, ma dove emerge solo il controllo, il rispetto della regola. Così come hanno fatto le forse dell’ordine, che, stando alla cronaca, hanno applicato la norma, per altro in molti casi non chiara ma interpretabile, perdendo spesso di vista il buon senso e, soprattutto,  l’obiettivo: la tutela della salute, che non si traduce necessariamente con la chiusura in casa, ma con il rispetto delle norme igieniche, dell’utilizzo corretto dei DPI e il rispetto della giusta distanza fra le persone. Riprova ne è, negli ultimi tempi, il diffondersi di contagi nella famiglie lombarde seppur chiuse, o forse proprio perché, chiuse in casa.

Sarebbe stato sufficiente usare una terminologia diversa per avere un clima diverso? Io credo di sì. Credo che molto abbia fatto e continuerà a fare la terminologia bellica, lasciando sul terreno traumi, che potevano anche essere contenuti: quante famiglie hanno visto sparire i propri cari senza poter più avere un contatto fisico con loro? Quanti operatori sanitari si sono drammaticamente fatti carico di stabilire un contatto con i familiari negli ultimi momenti di vita? Quante famiglie non hanno potuto celebrare un rito collettivo e catartico come il funerale? Quanti operatori sanitari hanno perso la propria vita? Quanti bambini hanno visto i nonni sparire senza un perché?

Se vogliamo continuare ad usare un linguaggio bellico possiamo dire che al fronte ci sono andati non solo i sanitari, ma anche gli ammalati: entrambi accomunati da un destino infausto. Si poteva evitare? Forse sì. Solo con un linguaggio diverso? Certamente avrebbe contribuito a guardare i fatti in un’altra prospettiva, determinando quindi interventi, azioni, decreti, ordinanze con un taglio diverso, più sanitario, più preventivo, più educativo, più responsabilizzante che non normativo e reprimente.

E allora poi ci sta che, in un simile contesto, qualcuno si metta fanaticamente a tentare di definire il 25 aprile come la Liberazione dalla guerra che abbiamo in corso contro un nemico invisibile!

A parte le solite raccomandazioni scritte sugli atteggiamenti da tenere, quanti sono stati i video  dedicati ad una corretta, approfondita, esplicativa educazione? Quante le indicazioni video ufficiali sull’uso corretto delle mascherine (di cui si è per altro iniziato a parlare dopo oltre un mese dall’avio del contagio)? Quante le informazioni scientifiche sulle modalità di trasmissione del virus? Auspico che, nella preparazione alla Fase 2, vi sia un’adeguata opera di formazione e informazione rispetto ai comportamenti da tenere e che si punti sulla dimensione sanitaria e non su quella sociale di mero evitamento. Che ci venga detto come possiamo con-vivere e non come dobbiamo e-vita-rci. Siamo riusciti ad uscire dalla paura del contagio HIV quanto sono state fornite le corrette indicazioni sanitarie e quando si è superata la stigmatizzazione. Crediamo che la strada da percorrere sia questa, uscendo dal campo di battaglia, che lascia solo vittime. E troppi traumi.

 

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 10 “Come si sentono i miei figli in questi giorni?”

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 10 “Come si sentono i miei figli in questi giorni?”

    A cura di Ilaria Pollono

“E come Le sembra che stia Anna in questi giorni (primogenita di 7 anni)?” “Mi sembra serena, giochiamo, facciamo tante cose insieme, le maestre ci mandano le video lezioni (pausa)   … Bè, in realtà,  da qualche settimana mi sembra più svogliata, ha iniziato a “sognare brutto” di notte e, in generale,  la vedo molto irrequieta”.

“E lei, come sta? Lavorare in casa, seguire Anna e Luca con la scuola, suo marito è medico. Dev’essere difficile”. “Tutto sommato sto bene (pausa)  Bè, insomma… (commozione). In realtà sono disorientata, a volte mi sembra di non concludere niente. Adesso che ci penso mi sento smarrita e sono stufa di questa situazione!”

Durante questo primo mese di vita in casa abbiamo spesso parlato con molti genitori come la mamma di Anna e Luca. Genitori amorevoli che hanno messo in campo tutte le risorse possibili per accompagnare i figli in questo drastico e repentino cambiamento.  Genitori che, impegnati a riorganizzare la loro vita (familiare, professionale, personale), hanno impiegato molte energie nell’aiutare i figli a riorganizzarsi, nel tentativo di adattarsi a questo nuovo, seppur temporaneo, stile di vita.

Dialogando con i genitori al telefono, in video chiamata o in video call di gruppo, emerge un denominatore comune legato alla difficoltà di comprendere realmente lo stato d’animo dei figli. Impresa già abitualmente ardua, ma in questi giorni ancor più complessa.

Difficile immaginare come si sentano i figli, in un momento in cui anche per i genitori è difficile ascoltarsi.

In questo spazio temporale quasi “sospeso”,  i genitori spesso raccontano di non avere avuto il tempo di riflettere su come si sentono.  

Eppure, sapersi riorganizzare, riuscire a condividere momenti piacevoli con compagni e figli, essere in grado di stare bene in una nuova dimensione esistenziale, non preserva dall’angoscia di questo momento.

Dal timore che tutto possa non andare necessariamente bene. Da molti punti di vista. Primo tra tutti quello sanitario: sconfiggeremo il Covid?;  poi quello lavorativo: sarò in grado di adattarmi a questo nuovo modo di lavorare?; quello economico: quanto durerà questa situazione e quali ricadute economiche avrà?; quello sociale: quando potrò ri-contattarmi con le persone, con il mondo?; quello personale: sarò in grado di superare questo momento?; e non da ultimo, quello genitoriale: riuscirò a sostenere i miei figli in questo significativo passaggio della loro crescita?  Fermiamoci qui. Perché non abbiamo una risposta, ma certamente possiamo formulare buone domande che ci possano guidare il più possibile verso i figli, verso il loro stato d’animo, verso il loro modo di vivere questo cambiamento, nel tentativo di adattarsi ad una situazione che tornerà a cambiare nuovamente. 

Difficile immaginare per un bambino di 4 anni cosa significhi non relazionarsi più con i coetanei e con le figure educative di riferimento, non poter correre più liberamente in un parco. Così come è difficile spiegare ad un bambino di 2 anni che non si può uscire dalla porta di casa quando si abita in un palazzo senza balcone né cortile. Difficile immaginare le sensazioni di un bambino di 8 anni che si allenava tre volte alla settimana e che ha interrotto improvvisamente le sue relazioni sociali. E ancora, come si sente un adolescente (animale sociale per definizione) alla ricerca di sé, tra le mura domestiche? Un paradosso.

Forse non  resta che domandarsi realmente come si sta. Farlo ogni giorno. Avvicinandosi. E chiedendo loro come li fa sentire questa nuova situazione. Accogliendo tutto ciò che loro portano, avendo cura di non sdrammatizzare, di non cercare di “placcare d’oro” ciò che provoca malessere (tristezza, rabbia, noia, irritabilità…) . Accogliendo. Facendosi sentire vicini a quel loro stato d’animo. Esserci, anche senza commentare. Per poi infondere fiducia. Come ha fatto la mamma di Anna qualche giorno dopo aver riflettuto sul suo malessere:  “Lo so che anche se sei contenta di stare a casa da scuola insieme a noi a volte ti senti spaventata Anna.  A volte ti vedo triste, lo so che ti mancano i tuoi compagni. Certi giorni sono più difficili di altri, lo so anche per i grandi è così. Per questo a volte in questi giorni ci scontriamo anche! Troveremo il modo per affrontare anche questo momento Anna, vedrai” (abbraccio).

Stare accanto all’emozione dei figli. Quando si ha l’energia e la disponibilità per farlo. Accoglierla senza giudicarla, senza “abbellirla” o “aggiustarla”. Un esercizio difficile [perché assistere al malessere dei figli è difficile!], ma non impossibile, se rinunciamo a voler necessariamente migliorare le cose in quel preciso momento. Le cose si migliorano con il tempo. Passo a passo, ascoltandosi e accogliendosi a vicenda. Quando si sente di avere l’energia per farlo.

Immagine di: Rebecca Dautremer

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 9 Affacciarsi al figlio ADOLESCENTE a cura di Raffaella Borio

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 9 Affacciarsi al figlio ADOLESCENTE a cura di Raffaella Borio

   Uscire da una situazione, uscire da una crisi sanitaria, sociale, economica, da una crisi familiare,  ma anche solo uscire, suona come un privilegio in questo tempo. Freud, in Psicologia del ginnasiale, descrive come il bambino diventa adolescente quando esce dalla stanza dei giochi  per affacciarsi al mondo: lì riesce a cogliere l’amore per il proprio genitore, ma anche, contemporaneamente, il fastidio nel considerarlo colui che disturba la propria vita pulsionale.

 Parliamo di pulsione in psicoanalisi ogni volta che c’è qualcosa che avanza una esigenza, che spinge, senza preoccuparsi se l’Altro dice di si o di no. Nell’amore, ad esempio, si dipende dal segno d’amore dimostrato dall’Altro che si ama. La pulsione, in questo, è il contrario dell’amore. Si tratta di una esigenza senza concessioni, senza limitazioni.

Il modello genitoriale in adolescenza fa difetto rispetto al limite, non borda come durante l’infanzia; non borda più neppure quel senso innato di precarietà che il bambino porta con sè; anche per questo il giovane figlio inizia a prendere le distanze dalla madre e dal padre alla ricerca di qualcosa che possa fare da ulteriore sponda, da nuovo limite e in qualche modo anche da scudo e protezione. Nello stesso periodo in cui il bambino esce dalla stanza dei giochi può succedere che cambi qualcosa anche nel genitore che, ad un tratto, può avvertire la sensazione di non riconoscere più come prima il proprio figlio. In un bailamme di contrasti affettivi di questa portata le fratture dei legami familiari sono all’ordine del giorno. Per il giovane risulta complicato prendere posizione e assumersi la responsabilità di dirsi -e dire- ciò che sta diventando, di dialogare a partire da un proprio sguardo sul mondo, di rendersi riconoscibile al genitore. Per l’adulto, invece, può essere difficile accogliere che la domanda del proprio figlio adolescente non sia più rivolta a lui, ma si esaurisca, piuttosto, all’esterno della famiglia, veicolata dalla facilità di comunicazione data dai social. Per l’adolescente vivere bene in famiglia è fattibile  a condizione però di rappresentarsi in società in una forma definibile, che si possa dire, vedere, percepire, incontrare secondo parametri riconosciuti, che non sono più quelli visti dai genitori. I genitori fanno molta fatica in genere a lasciar andare i “connotati di bimbo” del figlio. E mentre si  impegnano in questa difficile operazione di separazione, l’adolescente si esercita a dire io sono, io faccio, io dico, io penso … ossia inizia a rappresentare ciò che è; inizia a posizionarsi e narrarsi rispetto ad altri: io sono questo e non quello, sono così e non tutto il resto, amo questa cosa, questa persona, questo stile e non altri. Insomma questo sì, quello no. Potremmo dire che è alle prese con la propria costruzione. E gli altri? Gli altri, soprattutto gli amici e i pari, hanno una precisa funzione nel processo ricostruttivo. In questo preciso momento, vissuto molto in casa, gli adolescenti, in particolar modo, possono trovarsi in difficoltà. Chi incontrano? Come gestiscono la vita pulsionale che solitamente riversano nelle attività e nelle relazioni sociali? L’indicazione data a tutti noi dalle autorità è quella di affacciarsi alla finestra piuttosto che quella di uscire per strada e di questo monito, che è una esigenza pubblica ma, al contempo, si propone come paralizzante, è necessario che i genitori, gli adulti in genere, se ne facciano qualcosa, non lo subiscano e non facciano sentire ai più giovani di subirlo! Come? Bisognerà affacciarsi alla relazione con i propri figli, ossia muoversi nel legame con delicata attenzione rispetto a cosa si dice, a cosa si racconta: le parole hanno potere e producono effetti, oggi più che mai ne sentiamo la consistenza, soprattutto perchè  si è costretti alla prossimità, alla vicinanza dei corpi con le tensioni e le oscillazioni d’umore, le insofferenze, le apatie e l’aggressività di cui tutti noi siamo portatori nella difficoltà. Come prendersi cura di noi, dei legami familiari e in particolare del legame con i propri figli? Quando i figli si rifiutano di parlare o lo fanno solo se costretti? Quando evitano il confronto o cercano lo scontro? Non è un compito semplice, ma è quanto di più amorevole un genitore possa fare: accogliere. Far posto alla difficoltà. Proviamo ad includere i figli  in un andirivieni di attenzioni e parole, che tolgano dalla forzatura dell’incontro domestico, che tolgano dalla fissità: il ripetersi dei discorsi è già di per sè isolamento. La chiusura nelle mura di casa, la condivisione del tempo, l’esposizione ai gesti e ai volti familiari, come alle abitudini e ai soliti comportamenti, la mancanza di spazi privati possono compromettere i legami più sereni. I corpi son fermi, la vita sociale azzerata, gli incontri ridotti al minimo storico: il riconoscimento e il consenso dell’Altro di cui si alimenta un giovane adolescente è difficile da raccogliere, adesso. Il genitore può usare le parole per calmare, per disangosciare, ha il compito di dialogare con il figlio per contrastare con il propriodesiderio di farcela” (che poi è lo stesso desiderio di vivere che l’ha fatto diventare genitore) quella pulsione che spinge il giovane verso fisiologici stati di inquietudine. Una vitale circolarità di parole, diverse,  sempre attente, prive di giudizio, e più tese ad includere  i discorsi del figlio,  può far sì che si possa continuare ad abitare la propria casa come  un luogo di protezione e riparo. Ecco lo scudo di cui scrivevo all’inizio. Il genitore può, in questa situazione, tornare ad essere per il figlio un limite ma anche un riparo: facendosi presente nei silenzi del figlio, silente nei suoi eccessi e riducendo così  il rischio di scontri causati sempre da un troppopieno di detti e di corpi. Creare una alternanza di presenza e assenza che punti a simbolizzare il legame e a vivere il rapporto non come intrusivo e invadente, ma come appiglio, a cui agganciarsi al bisogno per domandare aiuto. Stiamo tutti facendo esperienza diretta, che le formazioni umane, i gruppi e la società, sono dell’ordine del necessario per l’uomo: essere esclusi dal consorzio umano, fatto di quell’umanità a volte anche fastidiosa, può trasformarsi d’un tratto in crisi, personale e soggettiva. Un Altrove è necessario per ognuno di noi, ma per un adolescente è indispensabile: per far esistere l’io, per essere, per differenziarsi, per costruirsi.

Immagine di: Rebecca Dautremer

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 8 Educare e Insegnare ai tempi del Covid 19

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SPAZIO CONTRO-VIRUS 8 Educare e Insegnare ai tempi del Covid 19

Questo articolo è stato pubblicato in PEDAGOGIA da Gessetti Colorati

A cura di Massimo Giugler

In Canavese l’ultimo giorno di lezione è stato il 21 febbraio. La chiusura delle scuole per le vacanze di Carnevale si è tramutata in chiusura per la prevenzione della diffusione del Covid-19. Da allora sono trascorsi quasi due mesi e altrettanti ne trascorreranno prima di un’altra chiusura: quella di un anno scolastico decisamente anomalo.

Ma come cambia la scuola in questo nuovo scenario e come cambia di conseguenza il ruolo degli insegnanti? Credo sia necessario porsi questa domanda, prima di declinare le azioni che gli insegnanti possono attivare in questi mesi di chiusura forzata.

E’ necessario partire dal contesto: le scuole, ribadiamo, sono chiuse per un motivo sanitario e gli allievi sono a casa in una situazione di forte restrizione. Convivono forzatamente con i propri familiari in un contesto in cui si respira un’aria di preoccupazione per la salute propria e dei propri cari, per il futuro personale e collettivo, per le conseguenze di questa pandemia, per il lavoro, per la situazione economica. In molte famiglie la preoccupazione è ancora più elevata laddove vi sono dei componenti che svolgono delle professioni sanitarie. In altre famiglie si sono vissuti dei lutti o dei momenti di significativa preoccupazione dovuti ai ricoveri di famigliari in ospedale o per la contrazione della malattia.

I bambini si trovano in mezzo a una tempesta emotiva: anche se i genitori si impegnano a erigere un cordone protettivo, le preoccupazioni transitano e si sedimentano in loro. Spesso i bambini non possono vedere i nonni, o altri componenti della famiglia, con i quali avevano un rapporto significativo. Se hanno i genitori impiegati in professioni sanitarie devono mantenere le distanze di sicurezza: non possono abbracciarli ed essere abbracciati. Possono aver subito un trauma, come i propri genitori, nel caso in cui il nonno sia deceduto. E non lo hanno nemmeno potuto salutare, né accompagnare al cimitero: un sparizione incomprensibile e un vuoto che pesa in famiglia e che aumenta il carico emotivo.
E ancora: non possono uscire per giocare, non possono vedere i propri compagni di scuola, non possono praticare lo sport preferito e frequentare altri compagi di gioco, non possono più seguire fisicamente i corsi ai quali erano iscritti. Il ritmo della giornata è allentato e ciò crea in loro ulteriore disorientamento. Convivono in spazi e situazioni a volte carichi di tensione per le difficoltà di relazione tra e con i genitori o con i fratelli, hanno dovuto adattarsi, in poco tempo, a una nuova modalità di organizzazione della propria vita e, in particolare, di approccio allo studio e alla scuola.
Quando questa è stata chiusa non hanno potuto salutare né gli insegnanti, né i compagni. Non si sono detti arrivederci, né dati un appuntamento certo, come quando la scuola chiude per le vacanze estive. Vivono, come tutti noi, un tempo sospeso, senza una data certa per il ritorno a scuola.

Se esprimiamo quanto detto in termini di BISOGNI dei bambini, li possiamo così sintetizzare:

–          BISOGNO DI RELAZIONE CON FIGURE ADULTE SIGNIFICATIVE “SCOMPARSE”
–          BISOGNO DI CONDIVISIONE CON I COETANEI in forme “NUOVE” proposte dagli adulti
–          BISOGNO DI EMPATIA (DI EMOZIONARSI CON…)
–          BISOGNO DI PROSEGUIRE il proprio PROCESSO di APPRENDIMENTO” (ATTRAVERSO nuovi             STIMOLI alla RICERCA)
–          BISOGNO DI RITMI (anche rituali) CHE LI STRUTTURINO DURANTE LA GIORNATA
–          BISOGNO DI PENSARSI IN UNA PROSPETTIVA FUTURA DI RITORNO ALLA NORMALITA’

Viene allora da chiedersi come possano gli insegnanti riuscire a colmare, almeno in parte, questi bisogni. Ritengo che questa debba essere la sfida, la nuova frontiera. Dal mio punto di vista agli insegnanti viene chiesto un cambiamento significativo, che non è basato sull’apprendimento delle nuove tecnologie. La sfida è come riuscire a rimanere empaticamente connessi ai propri alunni, come continuare ad essere quel punto di riferimento significativo come lo sono stati negli ultimi mesi (o anni), come trasformare la didattica della distanza a didattica della vicinanza.

Provo a suggerire alcune attenzioni, convinto però che l’agire dell’insegnante passa necessariamente dalla connessione con la condizione emotiva dei bambini di questi giorni o, in altre parole, dalla risposta alla domanda posta in premessa: quale diventa il ruolo dell’insegnante ai tempi del Covid-19?
Cito due funzioni: una a livello di singolo bambino, una a livello di gruppo classe.
Credo che sia molto importante che i bambini percepiscano i docenti, che li sentano non solo e tanto attraverso i compiti, ma sentano la loro voce, li possano vedere. La voce è calda, suscita emozioni, conduce a ricordi, lega al contesto scuola che oggi manca. Se poi potessero sentire che la voce, in alcuni momenti, è solo per loro (messaggi personalizzati), si sentirebbero ancor più gratificati e legati alla voce stessa. E ritroverebbero un significativo punto di riferimento.

A livello di gruppo: gli insegnanti possono agire azioni che facciano percepire che la classe c’è ancora, che i compagni sono vivi e stanno bene. Ciò vale soprattutto per la fascia delle infanzia e primaria, dove, almeno fino alle classi V°, non vi è, sanamente, autonomia nell’uso di smartphone e social e quindi contatto diretto con i compagni. Come può essere mantenuta la dimensione classe in una situazione in cui ognuno è a casa sua? Ideale sarebbe la presenza di tutti sullo stesso monitor, con i loro volti, le loro voci: un luogo virtuale che diventa un contenitore. Ma se ciò non è possibile ci si può immaginare altre forme di comunicazione, purché si abbia presente anche l’esigenza dei bambini di percepire il gruppo classe.

Ci tengo ancora ad evidenziare una funzione trasversale che possono agire gli insegnanti: recuperare il legame con il recente passato e dare prospettiva. I bambini hanno una dimensione del tempo concentrata sul presente, fanno fatica, per costruzione cognitiva, a sviluppare un pensiero ipotetico deduttivo che li porti a immaginare il tempo futuro e pongono i ricordi temporali in modo disordinato. Gli insegnanti possono da un lato riproporre, seppur in forma virtuale, abitudini, consuetudini, rituali che erano propri del loro tempo scuola; dall’altro assegnare compiti quali tracciare un ricordo di questi giorni (con foto, disegni, scritti, vocali, video) da tenere e portare poi al rientro a scuola. Un modo per creare una continuità orizzontale che colleghi il presente con il passato e trovare un punto da cui ripartire nel prossimo anno scolastico e ricucire lo strappo che c’è stato.

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