Studio Sigré

SPAZIO CONTRO-VIRUS 11 “Il potere delle Parole”

    A cura di Massimo Giugler

 

Le parole rappresentano un potente mezzo per definire la realtà in cui viviamo. Modificare le parole ci permette di percepire la realtà in cui viviamo in modo diverso. In psicoterapia si pondera l’uso della parola. Ne sono molto attente alcune discipline quali la Neurolinguistica, la psicoanalisi, l’ipnoterapia, la sistemica, seppur con declinazioni cliniche diverse.

In una terapia di coppia assume un significato diverso chiamare i membri della coppia con il proprio nome o chiamarli marito e moglie, o mamma e papà, così come sottolineare o meno il legame con i figli chiamandoli per nome o con l’appellativo di “figli”. Non è una questione di giusto o sbagliato, ma di risonanze, di scenari che si aprono (o chiudono), in modo diverso, di modalità di percepirsi in relazione con i soggetti che si citano.

Possiamo tranquillamente affermare che, seppur in maniera diversa, l’uso della parola è un denominatore comune per tutte le correnti psicoterapiche.

Che parole entrano in casa in questi giorni? Noi, come genitori, che parole stiamo usando in questo periodo di “clausura”? Che parole sentono i nostri figli in casa?

In questi ultimi due mesi abbiamo assistito ad un esempio calato nella nostra quotidianità rispetto a quanto stiamo affermando. Ci riferiamo alla vicenda del Covid-19. I termini utilizzati dai mezzi di informazione hanno descritto l’epidemia come una guerra. Hanno così definito il contesto, perché le parole definiscono anche il contesto, come un contesto di guerra. In guerra si sa, cambiano i valori, le priorità. In guerra ci si pone l’obiettivo di sconfiggere il nemico e tutte le energie vanno in quella direzione. Quella diventa la priorità e tutto il resto passa in secondo piano. Ogni azione, anche la più impopolare, è giustificata dal fine dichiarato, in quanto ritenuto nobile.

Ma che sarebbe accaduto se si fossero usati altri termini? Se si fosse parlato di pandemia e tale fosse rimasta la definizione: non ci saremmo forse mossi in un contesto sanitario? Un contesto sempre hard, ma dove non sarebbero emersi termini come “fronte”, “eroi”, “prima linea”, “armi”, “task force”, ecc. Termini che a loro volta hanno contribuito a creare e rinforzare il contesto di guerra.

Se fossimo stati capaci di rimanere nel contesto sanitario, dando il giusto valore alle encomiabili azioni del personale sanitario, dei volontari delle associazioni che si sono prodigati in questa situazione critica, perdendo purtroppo in molti la vita, sarebbe cambiato qualcosa? Io credo di sì.

L’hanno già detto altri, ma se avessimo parlato di cura, di terapia, di rimedi farmacologici, di interventi di prevenzione, come sarebbero stati trattati gli ammalati e le loro famiglie? Avremmo sempre avuto l’attenzione sul bollettino di guerra delle ore 18 o avremmo spostato l’attenzione su altri indicatori?

Ci siamo infilati in una dinamica circolare in cui le parole hanno definito il contesto (di guerra) e le azioni intraprese lo hanno confermato. I presidi militari in strada, la massiccia presenza delle forze dell’ordine a reprimere azioni non in linea con le ordinanze varie,  sono la conferma del clima di guerra che si è creato. Una guerra che si sta spostando, piano piano, anche a livello di cittadini, che si assurgono, in molti casi, a sceriffi. Io controllo te, tu controlli me, secondo un principio che non è di tutela della salute, ma dove emerge solo il controllo, il rispetto della regola. Così come hanno fatto le forse dell’ordine, che, stando alla cronaca, hanno applicato la norma, per altro in molti casi non chiara ma interpretabile, perdendo spesso di vista il buon senso e, soprattutto,  l’obiettivo: la tutela della salute, che non si traduce necessariamente con la chiusura in casa, ma con il rispetto delle norme igieniche, dell’utilizzo corretto dei DPI e il rispetto della giusta distanza fra le persone. Riprova ne è, negli ultimi tempi, il diffondersi di contagi nella famiglie lombarde seppur chiuse, o forse proprio perché, chiuse in casa.

Sarebbe stato sufficiente usare una terminologia diversa per avere un clima diverso? Io credo di sì. Credo che molto abbia fatto e continuerà a fare la terminologia bellica, lasciando sul terreno traumi, che potevano anche essere contenuti: quante famiglie hanno visto sparire i propri cari senza poter più avere un contatto fisico con loro? Quanti operatori sanitari si sono drammaticamente fatti carico di stabilire un contatto con i familiari negli ultimi momenti di vita? Quante famiglie non hanno potuto celebrare un rito collettivo e catartico come il funerale? Quanti operatori sanitari hanno perso la propria vita? Quanti bambini hanno visto i nonni sparire senza un perché?

Se vogliamo continuare ad usare un linguaggio bellico possiamo dire che al fronte ci sono andati non solo i sanitari, ma anche gli ammalati: entrambi accomunati da un destino infausto. Si poteva evitare? Forse sì. Solo con un linguaggio diverso? Certamente avrebbe contribuito a guardare i fatti in un’altra prospettiva, determinando quindi interventi, azioni, decreti, ordinanze con un taglio diverso, più sanitario, più preventivo, più educativo, più responsabilizzante che non normativo e reprimente.

E allora poi ci sta che, in un simile contesto, qualcuno si metta fanaticamente a tentare di definire il 25 aprile come la Liberazione dalla guerra che abbiamo in corso contro un nemico invisibile!

A parte le solite raccomandazioni scritte sugli atteggiamenti da tenere, quanti sono stati i video  dedicati ad una corretta, approfondita, esplicativa educazione? Quante le indicazioni video ufficiali sull’uso corretto delle mascherine (di cui si è per altro iniziato a parlare dopo oltre un mese dall’avio del contagio)? Quante le informazioni scientifiche sulle modalità di trasmissione del virus? Auspico che, nella preparazione alla Fase 2, vi sia un’adeguata opera di formazione e informazione rispetto ai comportamenti da tenere e che si punti sulla dimensione sanitaria e non su quella sociale di mero evitamento. Che ci venga detto come possiamo con-vivere e non come dobbiamo e-vita-rci. Siamo riusciti ad uscire dalla paura del contagio HIV quanto sono state fornite le corrette indicazioni sanitarie e quando si è superata la stigmatizzazione. Crediamo che la strada da percorrere sia questa, uscendo dal campo di battaglia, che lascia solo vittime. E troppi traumi.

 

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